domenica 5 dicembre 2010

NEVE

E'
Spazio senza sporgenze
Ritmo di danza
Fra luna e silenzio.

mercoledì 1 dicembre 2010

PACE A TEATRO

Sono stati giorni di bisticci, lo ammetto. Non eri più come l'anno scorso. Non mi divertivi, sono sincero.

Poi una sera, ho deciso di venire a vederti a Teatro, tutto è tornato come un tempo.
Mi vestii per l'occasione e, strappando un passaggio ad alcuni amici, approdai a Milano.

Entrai tardi e le platee si erano ormai riempite.
La mia è una passione accesa, viva, ardente e necessita di trovare voce nel ritmo tribale di un tamburo. Allo stesso tempo però, segue attenta l'evolversi della trama, il dispiegarsi di quella sceneggiatura non ancora scritta, ma solo titolata. Così, presi posto fra chi "non si siede mai, pioggia o sole che sia", e gli altri, seduti e composti nei palchi: "quelli che si alzano solo tra un tempo e l'altro", per intendersi.

Iniziò lo spettacolo.
In queste rappresentazioni non sai mai cosa possa capitare, le opzioni di sviluppo sono infinite, in teorie incanalate ma, qui, la Fortuna gioca un ruolo decisivo come in qualsiasi altro palco d'erba del mondo. A volte esci contento, a volte triste.

Ricordo di aver sofferto, di essermi entusiasmato e anche di aver gridato contro la piccionaia rivale.

Novanta minuti vissuti con gli amici di Teatro, quelli che poi: " E poi ci siamo noi, quelli in televisione ...".
Novanta minuti in cui ti ho rivisto con occhi da innamorato.
Lo ammetto, la mia era una visione di te alterata dalle feste di fine anno, proprio come quando torni dalle ferie e il quotidiano ti sembra irreale.
Colpevole anche di aver dimenticato la tua origine: un bel pò di pazzia e tutto il resto sofferenza. Stando sempre attenti ad abbondare con quest'ultima, mi raccomando.

Ormai è tutto alle spalle, il nostro passato è cucito con stemmi sulla casacca di oggi.
Ora, non ci resta che provare a conquistare il mondo.

Bob

giovedì 4 novembre 2010

MASCHERA

Non c'è vento che modelli il tuo volto
ma polvere sull'abito che ti nasconde.
Sfili in un suono sconosciuto alla pelle,
ti spegni nel silenzio di una vibrazione.

Non muovi guerra nè colori la pace,
sei grezza pietra ancora da scolpire.

Conflitto, artefice di colori stonati,
ancora maschera di un volto scoperto.
Dall'abito il vento stropiccerà la polvere,
creando armonie nel solcare i lineamenti.

Bob

domenica 24 ottobre 2010

SCELTE

Volevano andarsene, ma sono rimaste dove le vedi.
Sono le radici di un'imbrunita foresta di sempreverdi.
Alla loro lenta vita, lo statico blu di un mortale cielo,
Dove gli alberi sono dritti e saldi al terreno.

Verbo d'intento tralasciato affinchè non s'incarni,
Vicolo cieco nella trame delle parche.

Mentre la mente balbetta dove la storia l'ha portata,
L'istante identifica l'imprevisto, la distanza e il risultato,
Disegna un tempo buio e luminoso che non si sfuma,
Iniziato quando era ppur presente se non lo sarà.

Bob

martedì 28 settembre 2010

24 - 05 - 2487

Sono giorni che vago per questo posto.

Buio, troppo buio.

Nel seguire il consiglio di un amico, conosciuto sul mio tragitto, mi sono munito di una salvietta. Devo dire che mi è stata realmente utile e più di una volta, specialmente con i Predoni di Vega ...

Non mi preoccupo più su cosa possono camminare i miei piedi, da tempo ho capito che il suolo è fatto da materia liscia, nera e scivolosa. La mia testa è al sicuro dagli spigoli del soffitto, questo buco si è alzato di parecchio.

La luce del tizzone che stringo nella mano destra illumina la mia strada, rende a me conosciuti almeno i successivi miei passi, mi infonde speranza ... ma chi sto prendendo in giro, qui è tutto buio.

Nemmeno la pazzia umana, avendo a disposizione tutta la dinamite della Terra, riuscirebbe a scalfire le tetre mura di questo Buco Nero, dove mi trovo da giorni.

Sto per perdere la speranza.

Credo sia meglio dormire, domani mi attendono altre ore di cammino.
Spero in un'illuminazione nella "notte".

Tratto da:
"L'interruttore del Buco Nero".

Bob

martedì 31 agosto 2010

Mi prendo un minuto fra le stelle

Stanotte bruceranno le tegole, il calore della pallida luna già sprigiona ardore.
Non troverete un comignolo a fumare, ma roventi mattoni ad attendervi.
Lapilli dall'Illuminato nero celeste, desideri troppo incauti per essere sorretti.
Oasi dentro la clessidra del tempo, nient'altro che ricorrenti sbarchi stellari.
Sonorità sorde fra il frasutono odierno, sono i segnali per il prossimo porto.
Approdato nel silenzio di un mondo senza atmosfera, cominciai a camminare, cercando qualcuno che potesse indicarmi.
Parole non trasmesse dalla faccia lontana, alternative che vanno oltre la retorica compongono la nostalgia della nostra natura, tenendosi per sè le vibrazioni di quell'onda.
Sacro e distruttivo regno dell'invisibile ricchezza, scrigno di talenti scambiato per un pezzo di stoffa.
"Trovo voi senza elmo a mostrarmi la strada. Sono scampato alle vostre tentazioni, alla caducità delle vostre tentazioni. Permettetemi di proseguire con la luce di chi vi dona riflesso, porterò con me il vostro consiglio".
Vide nella mia, l'ombra dei pochio che risalirono la china.
Sentii urla festanti prendere il largo, chiesi e ottenni asilo.
Un grande banchetto mi accolse sul ponte della nave.
Gustavano e si dissetavano, con oracolare intento, i primi corridori di un viaggio in direzione dell'oro, eroi per mano dell'oracolo e uomini per l'ira animale.
Branco di feroci cuccioli capitanati da una seconda scelta, soli davanti alla Fortuna, la esorcizzano in preda agli eventi.
Una lira introdusse parole, queste fecero per le immagini, la nitida opacità del suo mondo fece il resto.
Persi l'equilibrio e caddi sfiancato da tale immaginario. Non ricordo cosa sognai, ma solo una sensazione di pace.
La brina mattutina mi svegliò e mi ritrovai in alto mare, la mia sagoma si rifletteva abbandonata su sottili specchi.
Lastre di ghiaccio contengono le scosse del vostro impeto.
Venerato dio fra gli dei dalla dinastia dei Jonii; dal vostro destriero, cavalcante un mare senza vento di bonaccia, ma che soffia, sospinto dall'irrequietezza fra gli ancoli del vostro palazzo d'oro.
Flotte di delfini diressero la mia zattera verso l'orizzonte mentre poco più in là, vidi nubi ricoprire il cielo e renderlo nero.
"Sono nelle vostre grazie, o agite seguendo il destino da altre tessuto?"
Sorrisi spavaldo della sua benevolenza per il mio incedere, nascondendo il timore per questa brillante manifattura del destino.
Mi sentii al sicuro, avvolto e sospinto da Zefiro fra i suoi flutti. Il sole alto e caldo in cielo, ondeggiava a tempo con il mare. L'aria salmastra contava una suadente canzone, mi addormentai.
Quando ripresi il contatto con la realtà, il firmamento era vivo. Parlavno scambiandosi leggende gli astri. Desideri celati, confidenze degli uomini mentre tracciavano delle stelle la quadratura, cacciagione di Orione e di Sirio, quella che ancora gemeva nell'etere.
Rilegato in un libro mortale, non compresi l'evolversi delle vicende, non era ancora tempo per me per cogliere il senso delle costellazioni.
Un colorato e profumato giardino, mise fine al mio navigare. Terra.
Nascosta dietro a un cespuglio di mirto proveniva la sua voce. Sonorità che fa da eco alla sua bellezza e sensualità: la mia natura umana cadde innanzi alla sua visione rilucente d'amore.
La notte fu teatro del consumarsi del suo afrodisiaco rituale, intrecciammo i corpi e l'anima pregava di trattenere del sole il cocchio.
Venne l'alba a svegliarmi, una lunga strada si apriva davanti a me.
Respirai socchiudendo gli occhi, respirai nuovamente la polvere.
Deciso nel proseguire, non mi voltai memore delle sue regole, un passo dopo l'altro mentre le mani tendevano al cielo per un attimo.

Bob

martedì 6 luglio 2010

QUESTO TEMPO, FA BRUTTO

Partiamo da questo presupposto, voi avete ragione.

Avete ragione, la temperatura sfiora i trentacinque gradi abbondanti, e che non tocca mai i ventisette. Qualcuno dice che si sia dimenticata i gradi precedenti, tanto è il tempo che non ci ripassa. Me ne assumo la colpa.

Come dite, le zanzare? Intendete forse quegli insetti grandi almeno come il vostro pollice? Fastidiose e geneticamente modificate? Prima ... bastava un pò di repellente, ora anche il loro predatore teme di affrontarle. Hanno aperto una casa di cura psichiatrica per pipistrelli tornati dalla guerra alle zanzare, in fondo alla strada. Se anche il vostro soffre di incubi notturni, attacchi schizzofrenici da "post - volo", portatelo lì e dite che vi mando io. Tempo un paio di sedute e sarà subito a testa alta, al contrario s'intende. Ad ogni modo, qualunque rimedio usiate, è pur sempre colpa mia.

Non riuscite nemmeno a dormire e questo vi indispettisce. La gente indispettita vi innervosisce e vi rende nervosi nell'affrontare i nervi tesi dei vostri giorni e:"Maledizione! Voglio le ferie!".

Aspettate le ferie e poi, le riportate istantaneamente e sorridete, se incrociate sguardi di ricordi con chi era con voi, aspettando quelle successive. Ve le siete meritate! Quindi, avete ragione anche in quello.

Insomma, non posso che darvi ragione in tutto e per tutto, ma ora basta!

"Fa Caldo" - cribbio, devo fare sempre, tutto io?!

Proprio ieri ho visitato sette uffici tra poste, banche, assicurazioni e agenzie! Ho fatto la spesa per sei vecchiette e un paio di giovanotti che non avevano "sbatti di uscire". Senza dimenticare la sveglia mattutina, nove differenti suonerie. Questa, è stata la mia mattinata, devo continuare?

E' vero, vi creo qualche problemino, ma ...

Io, sono vostro amico. Pensateci bene, come vi vanno le cose? Ditemi, gira male, eh? State scontando le vostre ore di ventilatore e vi ripassate le vostre storie. Immagino che giochi di zapping, di righe d'esame, o di casualità dei vostri brani musicali, sono i vostri ammazzatempi, se non lavorate, vero?

Magari, le persiane sono chiuse e un mondo di rumori da lineare, aldiqua delle ante, è troppo faticoso d'affrontare, ma invitante diciamola tutta.

Si trova sempre qualcosa da "fare". Quindi, da bravi, affrontate i vostri ultimi impegni e, poi, andate in ferie. Giuro, quest'anno, una volta tornati, criticatemi pure e osannate il Caldo dei luoghi che visiterete ... Ma vi prego, smettetela di incolparmi per i vostri mancamenti. Date un pò di respiro a questo vecchio attempato, assumendovi le vostre responsabilità. Sapete, non vorrei vi capitasse qualcosa. Negli anni ho conosciuto venti, che conoscono nuvole, che mi hanno presentato ai Climi della Zona. (Non preoccupatevi, state tranquilli vi racconterò per filo e per segno tutte le vicende che mi hanno portato ad essere quello che sono). Si sa come vanno le cose, basta un fulmine e, zam! Un temporale di dieci giorni tende a mettere i bastoni fra le ruote, se siete in ferie. Le ferie sono un pò come una vita, non lo sapevate?

Ricordate: fate voi, non fa Caldo, cioè il sottoscritto.

Comunque, non parliamo più di queste cose. Da adesso in poi, so che ci penserete due volte prima di farmi fare qualcosa, intesi?

Ora, veniamo alla mia storia. Sono nato molto tempo fa ...



Tratto da "DON CALDO MEDITERRANEO, storia di un clima gangsta"



Bob

domenica 13 giugno 2010

STATO PARALLELO

Silenzio.
Non si sente un filo di vento.
La città vive ma le mie orecchie nn riescono ad udire nulla.
Il tempo prende colore,
prende forma,
la forma del mio essere
che muta e si avvicina ad esso.
Brace.
Non sono fuoco
e non sono cenere.
Non ho dimensione.
Stato parallelo.
Ardo senza vento,
Non c'è goccia d'acqua che mi plachi
e dentro la bramo,
la bramo più di ogni altra cosa.
Voglio mutare in materia,
Fuoco, acqua, aria e terra,
ma non riesco ad essere nemmeno polvere.
Da che mi chiedo:
"Il nulla può essere paragonato
ad uno stato della materia?
Uno stato fisico?
Uno stato mentale,
suvvia può anke esserlo!"
Ma vago nel mondo in cerca di una certezza,
di una risposta.
Mentre tutto si muove intorno
io resto ferma e aspetto.
Sto ferma con la mente che si muove
e nemmeno io
mi rendo conto che,
mentre divido corpo e mente,
divento polvere
e ritorno NULLA.

VIOLA G.M.

giovedì 3 giugno 2010

SENZA CERTEZZA

Senza niente di sensato da scrivere, ma con la voglia di raccontare ... Vi parlo di loro ... Formano un fantastco trio che lascia tutto al caso ... Un immaginato sforzo per decifrarli ... Crea una dubitante interpretazione della loro minima dimensione ... Rispondere a loro (...), bisognerebbe avere tempo per pensare! Non sempre si fanno capire e il più delle volte si fraintendono ... Inimmaginate possono essere le battute di ritorno, per chi li ha scritti ... Sarà, ma se ne abuso genero dubbi e quindi pensieri ...

Ve lo avevo detto ... niente di sensato da scrivere, solo alcuni punti di sospensione in una notte che mi vede ancora troppo sveglio per dormire ...

Bob

mercoledì 12 maggio 2010

Il Viaggio (capitolo III)

Era appoggiato allo sportello del camion. Un uomo alto, con pantaloni grigi, giacca marrone e occhiali spessi almeno un dito. Fumava impassibile la sua sigaretta. Quando ci vide arrivare si scostò dal camion.
“Lui sarà il tuo passaggio fino a Reno” disse il camionista che avevo conosciuto dentro l’area di servizio, rivolgendosi al misterioso personaggio.
Mi scrutò da cima a fondo da dietro i suoi occhiali spessi. Lì per lì, rimase serio poi sorrise. Allungò la sua mano verso di me “Piacere, Tom”.
“Io sono Greg” risposi.

Il camionista intervenne ricordandomi il patto che stavamo mettendo in atto: “Ok, ragazzo. Tu porti Tom a Reno. Eccoti 30 dollari. Gli altri 70 te li darà Tom a destinazione”.
“Ma tu cosa ci guadagni in tutto questo? Voglio dire, cento dollari sono un sacco di soldi. E tu vuoi darmeli solo per accompagnare una persona in un posto, che tra l’altro per me è quasi di strada. Devo preoccuparmi di qualcosa? Con tutto il rispetto – dissi rivolgendomi a questo misterioso Tom – ma chi sei? Un pericoloso serial-killer? Cosa devi andare a fare a Reno?”
“Ehi, Greg, il viaggio fino alla California è ancora lungo, se mi fai ora tutte le domande, non avremo più argomenti di conversazione lungo il viaggio”. Risero sonoramente tutti e due.

Pensai di lasciar perdere. La cosa non mi piaceva. Poi pensai che cento dollari erano pur sempre cento dollari e che i pochi soldi che avevo preso da casa avrebbero sì potuto essere sufficienti per arrivare fino in California e vivere fino a che non avessi trovato un lavoro, ma che non mi sarebbero mai bastati se le cose si fossero messe male. Cento dollari mi facevano gola. Per quanto riguarda il tizio che avrei dovuto scarrozzare fino a Reno, se si fosse rivelato pericoloso avevo pur sempre la vecchia Colt di mio nonno nascosta nella portiera, ma questo se le cose si fossero messe veramente male. Se tutto sarebbe andato liscio, avrei avuto un po’ di compagnia per una buona percentuale del mio viaggio.

Decisi di accettare ma stabilendo delle regole: “Ok Tom, ti porterò a Reno. Chiariamo subito un paio di cose. Di notte non guido, quindi ci fermeremo in qualche motel. Faccio conto di arrivare in California in meno di tre giorni, quindi vediamo di limitare le soste”. In realtà non avevo nessuna fretta di arrivare in California, avrei potuto mettercene anche 5 di giorni, ma lo dissi per darmi un tono. Quella del motel, invece non fu una mossa azzeccatissima. Viaggiando da solo avevo programmato di dormire in macchina per risparmiare, ma non mi fidavo però a dormire da solo in macchina con questo Tom, che per quanto ne sapevo poteva essere il nipote di Jack lo Squartatore.

Tom sorrise. “Affare fatto”, disse. Ci stringemmo di nuovo la mano. Lui salì in macchina, io salutai il camionista che mi passò i primi trenta dollari. Raggiunsi Tom in macchina. Stavo per passare i prossimi tre giorni con un perfetto sconosciuto, di cui sapevo solo il nome e che doveva andare a Reno. Era importantissimo che lui arrivasse a Reno. Quanto importante? Cento dollari di importanza.

Misi in moto e tornai sulla statale. Seguii le prime indicazioni per Amarillo e prosegui verso Ovest. Tentai di rilassarmi. Reno era proprio sul confine tra il Nevada e la California. Non ci sarebbe voluto molto. Ero deciso comunque a saperne di più su questo Tom. Non volevo girare intorno all’argomento, così andai dritto al dunque:

“Bene Tom, cosa ti porta a Reno?”

martedì 4 maggio 2010

CONFESSIONI DI UN LESTOFANTE

Davvero, non so come ho fatto ad arrivare qui. Certo, mi è andata anche un pò di fortuna, in queste cose lei ha sempre un ruolo determinante.
Sai quante ne ho vissute? Ho perso il conto di quante ne ho vissute!
In questo momento, mi stai guardando, vero? Sei nascosto fra la folla con il tuo cappello nero schiacciato sulla testa per non farti riconoscere e mi osservi in silenzio.
Quanti ne hai visti di mezzogiorni come questi? Ricordi il primo?

Eravamo solo di passaggio in quella maledetta cittadina. Tu volevi fare un salto dal maniscalco per comprare certe cose che ti servivano, io mi diressi al saloon. Il barista era un tipo silenzioso e non faceva domande di nessun tipo, si limitava a versare del rum ogni volta che facevo un cenno con la mano. I tavoli erano quasi tutti deserti, solo un paio erano circondati da gente di poco spessore che giocava a carte. Il pianoforte, vicino alle scale, era silenzioso e, visto lo strato di polvere appoggiatosi sopra, era da molto tempo che non suonava.
Gli scalini salivano, trasportati da una rampa, e portavano ad una porta, cosa ci fosse dietro non l'ho mai saputo, ma l'ho sempre immaginato.
Entrasti di colpo gridando che ci avevano riconosciuti e che era meglio tagliare la corda. Avevi ragione come al solito. La nostra fama ci aveva preceduto insieme alla taglia sulla nostra testa.
Fatto sta che corremmo fuori dal saloon, ma era già troppo tardi. Sulla strada ad attenderci c'era già lo sceriffo.
Era mezzogiorno e la polvere alzata dalla strada da quel vento caldo non era molta, sicuramente meno di quella nel saloon. Lo sceriffo ci guardava fisso negli occhi. Baffi bianchi e lunghi, un cappello con lo stemma della contea e la sua bocca che diceva di non muoversi e di posare le armi. Le mani impugnavano due pistole e le loro canne tenevano sotto controllo ogni nostro movimento. Tu eri fermo immobile dalla paura, non avevi mai sparato a nessuno e forse nemmeno mai ti avevano minacciato di spararti.
Lo sceriffo lo aveva capito, era in gamba il vecchio, infatti fissava me e non s'interessava minimamente a te.
Sorrisi e la campana suonò coprendo il rumore del colpo di pistola.

Fu la prima volta che dovetti farlo, con te s'intende.
Parliamoci chiaro, era andata fin troppo bene fino a quel momento: due lestofanti come noi non potevano non avere nel curriculum almeno un cadavere, era solo questione di tempo.
Diligenze, banche, treni e qualche riccone erano state le vittime delle nostre rapine, avevamo un buon bottino e ormai eravamo arrivati alla cifra che avevamo concordato, arrivati a ciò, ci saremmo salutati e ognuno sarebbe andato per la sua strada.
Tu avresti finalmente aperto quel saloon vicino al fiume e avresti passato la vecchiaia facendoti amare dalle "tue donne". Non avevi un progetto ben definito, avevi più che altro l'idea di un luogo dove stare e questo ti bastava.
Dal canto mio, avevo già una casa vicino al fiume e ad attendermi una moglie e due figli.
Sono ormai quattro anni che sono lontano da casa e di loro non ho più avuto notizie da quella sera. Dopo aver ucciso lo sceriffo, tornai a casa e dissi alla mia donna che dovevo andarmene e, se mi avessero cercato, di dire di non conoscermi. L'avevo fatta grossa, sparare ad uno sceriffo è una cosa grossa, così decisi di non entrare nei dettagli.

Ora sono nuovamente qui, il sole è alto, non c'è polvere questa volta e nemmeno una motivazione plausibile per continuare a vivere questi "mezzogiorni di fuoco".
Mi continuano a tornare in mente gli altri scontri.
Tutti i pistoleri avevano occhi di ghiaccio e mi osservavano immobili, ma poi arrivavano tutti a quell'istante: si lasciavano dapprima scaldare da un buon motivo per vivere, sciogliendosi in fine con il piombo caldo della mia "sputafuoco". "E' in quel momento che devi sparare - mi diceva sempre mio padre - se il tuo avversario trova un motivo per vivere, tu devi toglierlo, subito".

Purtroppo non sono io a fare le regole, io ho solamente accettato di giocare, così sorrido e il rintocco di campana copre, forse per l'ultima volta, il frastuono della mia pistola.

Bob

martedì 27 aprile 2010

COLORE CONFETTURA





E' un triangolo questa luna,
scivola la sua acuta cruna
tra le sue dita di marmellata
appiccica questa goccia mielata.
Giovane come una patata
e' la tua voce di marmellata.
T'ascolto cantare posata
sulle tue foglie di luce di fata.
Non c'e' una notte migliore
trovo il pizzico del sapore
nello sciame degli insetti
devoti al loro lavoro da matti.
La luna abbaglia questo alveare
pieno di dolore mentre cola
il docile e soffuso frutto del cuore.
L'ape sa di essere e vola.
E' un triangolo questa luna
coperta dalle nubi grige e fuma
un comignolo senza la duna
del tetto che lo ospita e fuma
un comignolo senza la duna
del tetto che lo ospita e piuma
e' il mio spirito di selciato
di sottobosco acerbo e arido,
risollevato dal rumore placido
di un millepiedi attento.
Sempre si pone l'ombroso faggio
fronte al bosco dei larici
e solo se ne sta a pensare al peggio,
mentre l'ardore del miele in questi baci
rifulge un'ardore un furore, e' luce.
Miele di luce, luce di sale atroce
comprendi i miei soffocati tumulti
ronza intorno perche' se entri salti
d'emozione, entra nel mio alveare
e sentilo il mio maledetto dolore.
Senti come e' gustoso
sentilo come l'uomo non e' piu' geloso.
E' un triangolo questa luna
e' una sposa del cielo
bianca e azzurra che suona
la sua lira dal nero velo.
Scivola sempre una lucida
schifida essenza putrida
di questa passione acida,
lucida e lucida luce sadica.
Luna, o luna semplice
lanterna triplice, luce di cimice
quanti sono nel tuo camice
di infermiera della notte all'apice,
della patologica sensazione,
di questa notte d'anice
sempliciotta e di contestazione
contro il cosmo con l'arpione.
Con la vanga pianto nuove stelle
nel giardino celeste di bolle,
di luce e di luce la luce folle.
E' un triangolo questa luna
e' una tana per fuggitivi,
di quei galeotti d'amore schivi
alla loro faccia che suona
con gli occhi senza storia,
e la lingua mozzata dall'aria
respirata da queste narici chiuse
cavalcata da tre insetti sui veli
di quelle tre giovani spose
che danzano al vento dei cieli.
Questo triangolo e' adesso una palla
e si vede la luna con questa faccia
di una luna stanca che cerca spalla
in un'alba che la notte straccia.
Che tu possa miele di alveare di luna
scendere sotto la costa
incanalarti nel mare di festa,
sentire il gingillo della schiuma
filtrare i tuoi ruvidi fili di crosta
spulciare la filanda dalla testa.
Cripta azzurra dei mari prosciugati
sei la lanterna di questa marmellata
e senti il gusto prima dei concerti
come le doglie prima dei parti.



Otlab

sabato 10 aprile 2010

SCENARI TRASPARENTI

Questa breve storia, circa una mezz'ora nella vostra realtà, racconta di Tom e dei suoi fogli trasparenti e di quando il cielo si mise a guardarli con me.

Tom disegnava, sempre. Impugnava la sua matita nera e disegnava il mondo su dei fogli trasparenti.
Tracciava statiche linee nere in cui sgorgava, intrappolata, la linfa vitale di quei luoghi.
Non c'erano colori, solo il nero dei contorni di quel mondo.
Molte volte chiesi spiegazioni e, nello stesso numero, furono le risposte vaghe e senza senso che Tom mi diede a riguardo.

Capitammo sull'argomento una notte di luna piena, fu lui a proporlo.
Tolse dalla sua borsa quel plico di trasparenze che si portava sempre appresso, lo fissò un attimo e disse: "Scenari, ecco cosa disegno".

"Bisogna guardarli insieme al cielo: la sua luce scuoterà il tuo volto e lui racconterà all'azzurro la storia da te celata" - concluse Tom afferrandone uno a caso e posizionandolo davanti alla luna.

Non avevo ben capito il senso dell'ultima parte, ma lo feci una volta che la luna illuminò il mio viso schermato da uno di quei fogli.

Sorrisi e lasciai che il disegno facesse il resto. Mi guidò per le vie di quel paese che Tom aveva disegnato e che sembravano molto simili a quelle dove mossi i primi passi.

Tom cambiava i fogli davanti ai miei occhi e, con loro, anche i ricordi che smuovevano in me.

Un vecchio bar polveroso, una scala a chiocciola, un ascensore, una sala da ballo, un cortile con i giostrini per i bambini, una macchina su una collina, il mare in tempesta, l'azzurro nuvoloso, una sedia in una stanza, l'atrio di un palazzo, un fiume ... potrei continuare all'infinito.
Tom aveva disegnato lo scenario del mondo e io inserivo gli atti del mio.

Impressionati risultavano i miei ricordi su quei fogli trasparenti. Visionarne ancora i negativi con la luce della luna, mi faceva sentire in grado di scegliere quale stampare nella mente e quale lasciare che si perdesse per il cielo.
Tom tolse l'ultimo foglio e mi disse:"Un immagine per foglio, un foglio per uno scenario, uno scenario per una storia".

Non riuscivo a parlare, credo sia durato un pò il mio silenzio.
Tom, intanto, ripose i fogli nella borsa, si girò guardandomi fisso negli occhi e, con tono deciso, mi disse:
"Bhè, se non hai nulla da dire io vado a dormire. Buona notte".

Bob

lunedì 22 marzo 2010

Il Viaggio (capitolo II)

Guidai per duecento km verso Ovest. Feci la prima sosta tra Fort Smith e Norman. Mi fermai in un’area di servizio, avevo bisogno di benzina e caffè.
Entrai. Dietro al banco c’era una cameriera di colore, bella in carne, sulla quarantina avanzata. Mi fece simpatia da subito. Mi piaceva immaginare che si chiamasse Annie e che avesse due figli a cui badare fuori di qui, Jamal e Michael.

Presi posto al bancone, di fianco a quello che senza dubbio era l’autista di uno dei camion parcheggiati fuori. Barba lunga, leggermente sovrappeso e camicia a quadri: il camionista perfetto, secondo il mio immaginario.

Ordinai del caffè. Immaginavo la storia dell’autista seduto al mio fianco, esattamente come avevo fatto con Annie. Mi piaceva fare così con gli estranei: fissarli per un po’ e poi cucirgli sopra una storia, più o meno possibile. Così feci anche con lui: nella mia immaginazione si chiamava Frank, era partito la settimana scorsa da Vancouver ed era diretto a Miami. Bevvi il mio caffè tutto d’un fiato. Dio solo sa quanto ne avevo bisogno.

“E’ il caffè più buono di tutto il Sud Est”. Un forte accento del Texas mi fece voltare di soprassalto alla mia destra. Di fianco a me c’era questo curioso personaggio che non avevo nemmeno notato quando avevo preso posto. Era piuttosto basso, lo si capiva anche a vederlo da seduto. Portava un cappello da cow-boy, calato su delle sopracciglia foltissime e grigie. I baffoni lunghi facevano da cornice alla bocca sdentata.

“Come, prego?” risposi io imbarazzato
“Quello di Suzanne è il caffè più buono di tutto il Sud Est”. La cameriera dietro il bancone sorrise. Capii che non era Annie il suo nome, ma Suzanne.
“Amico, ma sei sordo o cosa?” incalzò lui
Rimasi come impietrito e non mi uscì nient’altro dalla bocca se non un tentennante “Sì è buono, è davvero buono”
“Da dove vieni?”, chiese lui
“Drexville”
“Mai sentita”
“Non mi stupisce”, risposi sarcastico “E lei? Da dove viene?”
“Da Chicago”
Lo guardai storto, non aveva proprio l’aria di essere uno di Chicago. Lui sembrò capire la mia perplessità e precisò “Sono partito da Chicago con il mio camion, ma io sono di Dallas”. Ora i conti tornavano.

“Dove sei diretto?” mi chiese
“San Francisco” risposi
I suoi occhi si illuminarono “Davvero?”
“Certo, perché?”
“Se ti do 100 dollari me la faresti una cortesia?”
“Dipende dalla cortesia”
“Devi solo portare una persona a Reno. Per te è di strada, ti costa solo una piccola deviazione”
La cosa mi puzzava. Cento dollari erano un sacco di soldi. “E chi sarebbe questa persona?”, chiesi.
“Usciamo, te lo presento”.

[…continua…]

martedì 2 marzo 2010

Il viaggio (Capitolo I)

La cosa più normale che ti possa capitare se sei nato a Drexville è odiare Drexville.

Drexville è il genere di cittadina dalla quale già verso i sedici anni ti vorresti allontanare il più possibile. La classica cittadina di provincia, senza locali, senza cinema, senza niente. I cittadini di Drexville sono tutti contadinotti abbastanza ignoranti, che tengono mogli e figlie sottochiave e i figli a lavorare nei campi già dai nove anni. Ti insegnano a rispettare il sindaco, il pastore, lo sceriffo e la signorina Mhuller, un’anziana tedesca che probabilmente era arruolata nelle SS ed era fuggita qui negli USA alla fine della guerra, adesso sbarcava il lunario facendo la maestra elementare.

Uno spirito libero non può vivere a Drexville. Infatti, era il 1962 quando decisi di fare la valigia, buttarla sulla mia Ford Galaxie e di partire verso Ovest.

I miei genitori approvavano la mia scelta. Quella di andarmene da quel posto. La mia famiglia era di orignie irlandese, ma loro non sono praticamente mai usciti da Drexville in tutta la loro vita. Mio padre mi diceva spesso che uno dei suoi più grossi rimpianti era quello di non avere abbastanza soldi per mandarmi a studiare in un’altra città. Odiava Drexville più di qualunque altra cosa al mondo, eppure si sentiva fortemente legato a quella fogna. Sentiva di avere un ruolo. Il suo ruolo era migliorare Drexville e la sua gentaglia. Io mi chiedevo chi o cosa glielo facesse fare. Allo stesso tempo sia lui che mia madre volevano proteggermi e allontanarmi da quel posto.

La sera prima della partenza ero andato a casa di Vincent. Volevo salutarlo prima della mia partenza. Vince era il classico amico “che non chiede mai perché”. Quando gli dissi che stavo lasciando Drexville, non mi chiese perché. Mi disse semplicemente “Accendi quella fottuta macchina e andiamo a scolarci due birre”. Una volta al pub ci venne un attacco di nostalgia e iniziamo a snocciolare ricordi su ricordi, come due anziani. Le birre da due, diventarono quattro e poi sei. Così ci ritrovammo mezzi sbronzi, abbracciati l’uno all’altro.

“Greg O’Malley, fottuto irlandese del cazzo, non azzardarti a tornare in questo buco di merda”, mi sussurrò Vince in un orecchio.
“Farò del mio meglio”, promisi io.

Il 23 gennaio 1962 lasciai Drexville e partii verso la California. Sarei tornato a casa 6 anni dopo.

domenica 28 febbraio 2010

AL SUO CHIAROR

Mi sono perso tra il sorriso splendido
mi son arreso ai tuoi occhi blu luna.

Nel cielo che biasimo in un candido
velo di serena illusione; fior di luna.

Sei l'infuso di un eterna posizione lieve,
calata giù per la mia gola lentamente.

Mi porti ambulante alle strade, grave
sono, mentre mi accascio malamente

in un angolo, per cui la strada è finita.
Sono seduto dove l'anima è trascinata

Adesso da solo mi chiedo,
in che cielo, sei disegnata.

Balto

mercoledì 10 febbraio 2010

VELOCE ... VELOCE ...

Indossi delle calze bianche e ti diverti a scivolare su un parquet, costruito apposta per far scivolare le tue calze bianche. Veloce, veloce per il corridoio, per poi fermarti sulla rampa di una scala che si fa caduta in un precipizio se arrivi troppo veloce sul suo ciglio.

E' la ringhiera quella che ti aspetta subito dopo. Polso fermo e afferri la ringhiera e veloce, più veloce, lungo quell'asta che ti scivola sotto i pantaloni proprio come le calze bianche sul parquet.

Veloce, più veloce. Un pomello d'ottone mette fine alla ringhiera ma colpo di reni e via lo salti a piedi pari, stoppandoti, su quelle calze bianche che a contatto con la moquette hanno smesso di scivolare.

Le calze bianche sembrano impantanate in mezzo a quell'assurda superificie, piano, piano. Affondano piano ogni volta che alzi il piede e lo riappoggi. Piano, piano. Avanzi cercando di mantenere il tuo equilibrio. Destra giù e sinistro alzato, sinistra giù e destro alzato ... bravo ... continua ... spalla destra giù e piede sinistro alzato ... ancora, mi raccomando piano ... giù e piede sinistro alzato ...

Hai forse fatto due metri da quando hai cominciato a dar retta all'equilibrio, che già ti sei stufato ... via, via veloce, veloce ...

Rimbombano, rimbombano i passi nella soletta del pavimento, le calze bianche hanno ripreso ad andare veloci, veloci e battono a tempo sulla moquette. Aumentano veloci i passi, incrementandoli a pari passo con il battito del tuo cuore. Il respiro si fa affannato, ma non puoi mostrarlo in pubblico, devi correre veloce. Veloce, senza mai fermarti, potrebbero sentirti! Sai che i passi rimbombano sordi e solo una volta nella soletta del pavimento, e che se respiri rieccheggi nell'aria che ti procura affanno.

Sei arrivato. Davanti a te un ascensore, la porta è chiusa e i numeri, posti a lato dell'anta destra dell'ascensore, degradano lentamente, partendo dal dodici. Rimani in attesa. Le calze bianche si riposano, restano ferme sulla moquette, lasciandosi sobbalzare solo dalle ultime onde sonore derivanti dalla corsa.

Diminuiscono i piani, finalmente i piedi, anche se per poco spazio, muoveranno le calze, per poi farle roteare sui talloni e rimetterle subito in posizione di partenza, con la porta dell'ascensore che chiude il sipario, mentre le dita dei piedi s'inchinano alla folla, muovendo le punte delle calze, partite bianche e già sporche.

Bob

giovedì 21 gennaio 2010

IL CAMBIO DI GUARDIA

Ti saluto.

E' stato bello, davvero.
Non sono bravo nei saluti, figuriamoci negli addii.

Però, ricordo come ci siamo conosciuti.
Pioveva, io giravo per le vie della città e avevo appena rotto con quello di prima. Si era stufato della vita che conducevamo e così, senza pensarci su troppo, un giorno decise di non chiamare più, lasciandomi solo.

Camminavo a testa bassa, pensavo e ripensavo a cosa mi avesse separato da lui, quando vidi te.
Ci stringemmo la mano e ci presentammo, saltando i convenevoli ed elencandoci le nostre esigenze, le aspettative e la speranza di non dividerci troppo presto, ma di lasciarci quando uno dei due si sarebbe sentito stanco.

Ne abbiamo fatte di cose ... viaggi, scherzi, litigi e botte ... ci siamo rispettivamente ricomposti quando cadevamo e ricaricati quando era il momento e le sveglie suonavano alla stessa ora per entrambi.

Ti ho presentato alla mia gente e tu ti sei sforzato di ricordarla tutta ... io non ci sarei riuscito.

Sai, mi fa ancora strano, sono passati pochi giorni, ma non riesco ad abituarmi.
Quello nuovo ha molte più cose di te.
Sa fare molte cose, alcune manco le immagini, ma non è te ...

Adesso stai con i miei vecchi amici, Citofono ti farà da guida e ti presenterà agli altri componenti del gruppo, non sono molti, ma tutti di nobile passato e, se ci fossero dei problemi, dì pure che ti mando io.
Ti troverai bene ... ne sono sicuro.

Caro Samsung, ora ti saluto, nell'altra stanza, il mio nuovo cellulare mi sta chiamando.

Sempre tuo.

Bob

lunedì 18 gennaio 2010

GRILLO SVENTURATO

La tromba suona,
suona, una tromba lontana.
Fiatata dal folle, la suona.
Tromba lontana.
Un grillo menestrello, verde venusto
impettito nel saltello;
suona un giglio, dal cappello piumato,
di flormusica velata.
La notte aggrada,
l'opale luna, d'idrargici raggi
la foresta appaga.
Come la tersa fine assurda
d'un grillo; poeta, di viaggi ne fece.
Propaga esfoliante, passando tra i rami
tra funi e fronzoli confusi,
sfoglie smagrite, altre poi lumi
persuasi, fumi e fiori rossi.

Lo strumento allieta,
tutta la natura si raccoglie,
l'istinto animale porge orecchio
da quei petali adunati,
dagli scogli c'è chi sceglie
un tuffo in mare; dallo specchio
alle orme ripercorse, e semoventi.
Il mio volto lascia ombre di denti.
Tasti di pianoforte mescolati
nell'eccesso di passioni e fiati;
suonano i migliori tra i petali alabastrini
di luce. Di luce che scorre, nelle ombre.

Schierì bianco il cielo
da essere tutto nuvola.
Poi invece il cielo precipitò;
lo schivai per un pelo
scostandomi; ora cola,
da essere tutto nebbia.
Suona bizzarro la tromba,
tra foschie, bagliori radi
suona tra i fiori, all'ombra
l'amata, dentro la tomba.
I suoni son fiati, d'amor
di note fatte in fila a gradi;
L'amor gli vende, non compra.
L'amor gli suona, non mostra.
Suona la tromba nel giglio di luce.

Otlab

giovedì 7 gennaio 2010

A VOLTE SIAMO EGOISTI

Questa sera la lascio a me stesso.
Lontano dai ricordi, dai frastuoni, dai silenzi, dai progetti, dai pensieri, dal lavoro, dallo studio, dall’amore, dall’amicizia e da qualunque cosa mi passa per la testa.
Ora, ne tralascio anche il loro contrario.
Io non ho altro che la mia serata da dedicare a me stesso.
Cammino per un viale alberato, al centro di esso una strada collega i due lembi della stessa città.
Palazzoni giganti sovrastano la terra, sembra che muovano un pensiero di scontro nei confronti di un cielo carico di pioggia pronta a scrosciare.
Questi ammassi di mattoni sono alti e nascondono la luna.
I giochi di luce dei lampioni macchiano di un irreale bianco, qua e là, il buio intensificato dalle foglie sulla mia testa.

Cammino per un viale alberato e non ho altro che questa sera da dedicare a me stesso.
Incrocio alcuni sguardi, ma probabilmente non sono io quello che cercano.
Taluni ricambiano al mio sorriso, altri hanno deciso che questa sera è dedicata a qualcos’altro, li riconosci , sono quelli che consumano avidamente la strada prima con gli occhi della mente che con le suole delle loro scarpe.
Poi, ci sono quelli che stasera non ha altro che una serata da dedicare a se stessi.
Il vento sposta le foglie e la luce cambia il senso rotatorio delle mie ombre.
Mi perdo nel capire chi gestisca questa danza fatta di grigi scuri e grigi chiari, che saltella e sparisce dietro alle quinte per poi riapparire ancora davanti a me, un ciclo continuo di ombre che si sviluppano dal mio corpo e appaiono giusto il tempo per allungarsi fino a sparire.
Cammino ancora un poco in questa sera che dedico a me stesso.

Bob