mercoledì 12 maggio 2010

Il Viaggio (capitolo III)

Era appoggiato allo sportello del camion. Un uomo alto, con pantaloni grigi, giacca marrone e occhiali spessi almeno un dito. Fumava impassibile la sua sigaretta. Quando ci vide arrivare si scostò dal camion.
“Lui sarà il tuo passaggio fino a Reno” disse il camionista che avevo conosciuto dentro l’area di servizio, rivolgendosi al misterioso personaggio.
Mi scrutò da cima a fondo da dietro i suoi occhiali spessi. Lì per lì, rimase serio poi sorrise. Allungò la sua mano verso di me “Piacere, Tom”.
“Io sono Greg” risposi.

Il camionista intervenne ricordandomi il patto che stavamo mettendo in atto: “Ok, ragazzo. Tu porti Tom a Reno. Eccoti 30 dollari. Gli altri 70 te li darà Tom a destinazione”.
“Ma tu cosa ci guadagni in tutto questo? Voglio dire, cento dollari sono un sacco di soldi. E tu vuoi darmeli solo per accompagnare una persona in un posto, che tra l’altro per me è quasi di strada. Devo preoccuparmi di qualcosa? Con tutto il rispetto – dissi rivolgendomi a questo misterioso Tom – ma chi sei? Un pericoloso serial-killer? Cosa devi andare a fare a Reno?”
“Ehi, Greg, il viaggio fino alla California è ancora lungo, se mi fai ora tutte le domande, non avremo più argomenti di conversazione lungo il viaggio”. Risero sonoramente tutti e due.

Pensai di lasciar perdere. La cosa non mi piaceva. Poi pensai che cento dollari erano pur sempre cento dollari e che i pochi soldi che avevo preso da casa avrebbero sì potuto essere sufficienti per arrivare fino in California e vivere fino a che non avessi trovato un lavoro, ma che non mi sarebbero mai bastati se le cose si fossero messe male. Cento dollari mi facevano gola. Per quanto riguarda il tizio che avrei dovuto scarrozzare fino a Reno, se si fosse rivelato pericoloso avevo pur sempre la vecchia Colt di mio nonno nascosta nella portiera, ma questo se le cose si fossero messe veramente male. Se tutto sarebbe andato liscio, avrei avuto un po’ di compagnia per una buona percentuale del mio viaggio.

Decisi di accettare ma stabilendo delle regole: “Ok Tom, ti porterò a Reno. Chiariamo subito un paio di cose. Di notte non guido, quindi ci fermeremo in qualche motel. Faccio conto di arrivare in California in meno di tre giorni, quindi vediamo di limitare le soste”. In realtà non avevo nessuna fretta di arrivare in California, avrei potuto mettercene anche 5 di giorni, ma lo dissi per darmi un tono. Quella del motel, invece non fu una mossa azzeccatissima. Viaggiando da solo avevo programmato di dormire in macchina per risparmiare, ma non mi fidavo però a dormire da solo in macchina con questo Tom, che per quanto ne sapevo poteva essere il nipote di Jack lo Squartatore.

Tom sorrise. “Affare fatto”, disse. Ci stringemmo di nuovo la mano. Lui salì in macchina, io salutai il camionista che mi passò i primi trenta dollari. Raggiunsi Tom in macchina. Stavo per passare i prossimi tre giorni con un perfetto sconosciuto, di cui sapevo solo il nome e che doveva andare a Reno. Era importantissimo che lui arrivasse a Reno. Quanto importante? Cento dollari di importanza.

Misi in moto e tornai sulla statale. Seguii le prime indicazioni per Amarillo e prosegui verso Ovest. Tentai di rilassarmi. Reno era proprio sul confine tra il Nevada e la California. Non ci sarebbe voluto molto. Ero deciso comunque a saperne di più su questo Tom. Non volevo girare intorno all’argomento, così andai dritto al dunque:

“Bene Tom, cosa ti porta a Reno?”

martedì 4 maggio 2010

CONFESSIONI DI UN LESTOFANTE

Davvero, non so come ho fatto ad arrivare qui. Certo, mi è andata anche un pò di fortuna, in queste cose lei ha sempre un ruolo determinante.
Sai quante ne ho vissute? Ho perso il conto di quante ne ho vissute!
In questo momento, mi stai guardando, vero? Sei nascosto fra la folla con il tuo cappello nero schiacciato sulla testa per non farti riconoscere e mi osservi in silenzio.
Quanti ne hai visti di mezzogiorni come questi? Ricordi il primo?

Eravamo solo di passaggio in quella maledetta cittadina. Tu volevi fare un salto dal maniscalco per comprare certe cose che ti servivano, io mi diressi al saloon. Il barista era un tipo silenzioso e non faceva domande di nessun tipo, si limitava a versare del rum ogni volta che facevo un cenno con la mano. I tavoli erano quasi tutti deserti, solo un paio erano circondati da gente di poco spessore che giocava a carte. Il pianoforte, vicino alle scale, era silenzioso e, visto lo strato di polvere appoggiatosi sopra, era da molto tempo che non suonava.
Gli scalini salivano, trasportati da una rampa, e portavano ad una porta, cosa ci fosse dietro non l'ho mai saputo, ma l'ho sempre immaginato.
Entrasti di colpo gridando che ci avevano riconosciuti e che era meglio tagliare la corda. Avevi ragione come al solito. La nostra fama ci aveva preceduto insieme alla taglia sulla nostra testa.
Fatto sta che corremmo fuori dal saloon, ma era già troppo tardi. Sulla strada ad attenderci c'era già lo sceriffo.
Era mezzogiorno e la polvere alzata dalla strada da quel vento caldo non era molta, sicuramente meno di quella nel saloon. Lo sceriffo ci guardava fisso negli occhi. Baffi bianchi e lunghi, un cappello con lo stemma della contea e la sua bocca che diceva di non muoversi e di posare le armi. Le mani impugnavano due pistole e le loro canne tenevano sotto controllo ogni nostro movimento. Tu eri fermo immobile dalla paura, non avevi mai sparato a nessuno e forse nemmeno mai ti avevano minacciato di spararti.
Lo sceriffo lo aveva capito, era in gamba il vecchio, infatti fissava me e non s'interessava minimamente a te.
Sorrisi e la campana suonò coprendo il rumore del colpo di pistola.

Fu la prima volta che dovetti farlo, con te s'intende.
Parliamoci chiaro, era andata fin troppo bene fino a quel momento: due lestofanti come noi non potevano non avere nel curriculum almeno un cadavere, era solo questione di tempo.
Diligenze, banche, treni e qualche riccone erano state le vittime delle nostre rapine, avevamo un buon bottino e ormai eravamo arrivati alla cifra che avevamo concordato, arrivati a ciò, ci saremmo salutati e ognuno sarebbe andato per la sua strada.
Tu avresti finalmente aperto quel saloon vicino al fiume e avresti passato la vecchiaia facendoti amare dalle "tue donne". Non avevi un progetto ben definito, avevi più che altro l'idea di un luogo dove stare e questo ti bastava.
Dal canto mio, avevo già una casa vicino al fiume e ad attendermi una moglie e due figli.
Sono ormai quattro anni che sono lontano da casa e di loro non ho più avuto notizie da quella sera. Dopo aver ucciso lo sceriffo, tornai a casa e dissi alla mia donna che dovevo andarmene e, se mi avessero cercato, di dire di non conoscermi. L'avevo fatta grossa, sparare ad uno sceriffo è una cosa grossa, così decisi di non entrare nei dettagli.

Ora sono nuovamente qui, il sole è alto, non c'è polvere questa volta e nemmeno una motivazione plausibile per continuare a vivere questi "mezzogiorni di fuoco".
Mi continuano a tornare in mente gli altri scontri.
Tutti i pistoleri avevano occhi di ghiaccio e mi osservavano immobili, ma poi arrivavano tutti a quell'istante: si lasciavano dapprima scaldare da un buon motivo per vivere, sciogliendosi in fine con il piombo caldo della mia "sputafuoco". "E' in quel momento che devi sparare - mi diceva sempre mio padre - se il tuo avversario trova un motivo per vivere, tu devi toglierlo, subito".

Purtroppo non sono io a fare le regole, io ho solamente accettato di giocare, così sorrido e il rintocco di campana copre, forse per l'ultima volta, il frastuono della mia pistola.

Bob