lunedì 22 marzo 2010

Il Viaggio (capitolo II)

Guidai per duecento km verso Ovest. Feci la prima sosta tra Fort Smith e Norman. Mi fermai in un’area di servizio, avevo bisogno di benzina e caffè.
Entrai. Dietro al banco c’era una cameriera di colore, bella in carne, sulla quarantina avanzata. Mi fece simpatia da subito. Mi piaceva immaginare che si chiamasse Annie e che avesse due figli a cui badare fuori di qui, Jamal e Michael.

Presi posto al bancone, di fianco a quello che senza dubbio era l’autista di uno dei camion parcheggiati fuori. Barba lunga, leggermente sovrappeso e camicia a quadri: il camionista perfetto, secondo il mio immaginario.

Ordinai del caffè. Immaginavo la storia dell’autista seduto al mio fianco, esattamente come avevo fatto con Annie. Mi piaceva fare così con gli estranei: fissarli per un po’ e poi cucirgli sopra una storia, più o meno possibile. Così feci anche con lui: nella mia immaginazione si chiamava Frank, era partito la settimana scorsa da Vancouver ed era diretto a Miami. Bevvi il mio caffè tutto d’un fiato. Dio solo sa quanto ne avevo bisogno.

“E’ il caffè più buono di tutto il Sud Est”. Un forte accento del Texas mi fece voltare di soprassalto alla mia destra. Di fianco a me c’era questo curioso personaggio che non avevo nemmeno notato quando avevo preso posto. Era piuttosto basso, lo si capiva anche a vederlo da seduto. Portava un cappello da cow-boy, calato su delle sopracciglia foltissime e grigie. I baffoni lunghi facevano da cornice alla bocca sdentata.

“Come, prego?” risposi io imbarazzato
“Quello di Suzanne è il caffè più buono di tutto il Sud Est”. La cameriera dietro il bancone sorrise. Capii che non era Annie il suo nome, ma Suzanne.
“Amico, ma sei sordo o cosa?” incalzò lui
Rimasi come impietrito e non mi uscì nient’altro dalla bocca se non un tentennante “Sì è buono, è davvero buono”
“Da dove vieni?”, chiese lui
“Drexville”
“Mai sentita”
“Non mi stupisce”, risposi sarcastico “E lei? Da dove viene?”
“Da Chicago”
Lo guardai storto, non aveva proprio l’aria di essere uno di Chicago. Lui sembrò capire la mia perplessità e precisò “Sono partito da Chicago con il mio camion, ma io sono di Dallas”. Ora i conti tornavano.

“Dove sei diretto?” mi chiese
“San Francisco” risposi
I suoi occhi si illuminarono “Davvero?”
“Certo, perché?”
“Se ti do 100 dollari me la faresti una cortesia?”
“Dipende dalla cortesia”
“Devi solo portare una persona a Reno. Per te è di strada, ti costa solo una piccola deviazione”
La cosa mi puzzava. Cento dollari erano un sacco di soldi. “E chi sarebbe questa persona?”, chiesi.
“Usciamo, te lo presento”.

[…continua…]

martedì 2 marzo 2010

Il viaggio (Capitolo I)

La cosa più normale che ti possa capitare se sei nato a Drexville è odiare Drexville.

Drexville è il genere di cittadina dalla quale già verso i sedici anni ti vorresti allontanare il più possibile. La classica cittadina di provincia, senza locali, senza cinema, senza niente. I cittadini di Drexville sono tutti contadinotti abbastanza ignoranti, che tengono mogli e figlie sottochiave e i figli a lavorare nei campi già dai nove anni. Ti insegnano a rispettare il sindaco, il pastore, lo sceriffo e la signorina Mhuller, un’anziana tedesca che probabilmente era arruolata nelle SS ed era fuggita qui negli USA alla fine della guerra, adesso sbarcava il lunario facendo la maestra elementare.

Uno spirito libero non può vivere a Drexville. Infatti, era il 1962 quando decisi di fare la valigia, buttarla sulla mia Ford Galaxie e di partire verso Ovest.

I miei genitori approvavano la mia scelta. Quella di andarmene da quel posto. La mia famiglia era di orignie irlandese, ma loro non sono praticamente mai usciti da Drexville in tutta la loro vita. Mio padre mi diceva spesso che uno dei suoi più grossi rimpianti era quello di non avere abbastanza soldi per mandarmi a studiare in un’altra città. Odiava Drexville più di qualunque altra cosa al mondo, eppure si sentiva fortemente legato a quella fogna. Sentiva di avere un ruolo. Il suo ruolo era migliorare Drexville e la sua gentaglia. Io mi chiedevo chi o cosa glielo facesse fare. Allo stesso tempo sia lui che mia madre volevano proteggermi e allontanarmi da quel posto.

La sera prima della partenza ero andato a casa di Vincent. Volevo salutarlo prima della mia partenza. Vince era il classico amico “che non chiede mai perché”. Quando gli dissi che stavo lasciando Drexville, non mi chiese perché. Mi disse semplicemente “Accendi quella fottuta macchina e andiamo a scolarci due birre”. Una volta al pub ci venne un attacco di nostalgia e iniziamo a snocciolare ricordi su ricordi, come due anziani. Le birre da due, diventarono quattro e poi sei. Così ci ritrovammo mezzi sbronzi, abbracciati l’uno all’altro.

“Greg O’Malley, fottuto irlandese del cazzo, non azzardarti a tornare in questo buco di merda”, mi sussurrò Vince in un orecchio.
“Farò del mio meglio”, promisi io.

Il 23 gennaio 1962 lasciai Drexville e partii verso la California. Sarei tornato a casa 6 anni dopo.